
Affresco
da Pompei: bottega di panettiere.
Napoli, Museo Archeologico nazionale |
“Getta
il tuo pane nell’acqua, perché dopo molto tempo lo ritroverai” (L’Ecclesiaste,
11,1).
Queste
parole non si riferiscono alla fresella, ma le starebbero a pennello. La
“fresella” napoletana, e meridionale in genere, altro non è che una
fetta di pane messa nuovamente nel forno (e dunque bi-scottata): ma basta
spugnarla con un po’ d’acqua, ed ecco che, “dopo molto
tempo”, quel pane lo si ritrova, pronto all’uso. La
fresella è un cibo povero. Nel senso di “adatto ai poveri”, perché
costa poco.
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Ma è povera anche lei, priva com’è di tutto. Anche di
grassi, il che la rende perfetta per le diete. Assai più dei
crackers, e dei grissini; grassini anziché no, essendo fatti con
l’olio, o con altri grassi, nel tentativo di dar loro un po’ di
sapore. Ma
proprio qui sta la grandezza della fresella: lei non pretende nemmeno di
avercelo, il sapore. La fresella si candida come umile compagna di
viaggio, e in questo è impagabile. La sua asciuttezza le rende resistente
al tempo e alla distanza: trattandosi di pane già secco in partenza, non
può infatti diventare secca. E soprattutto, non va a male.
Va
piuttosto a mare: i marinai, costretti a lunghi mesi di navigazione senza
toccare terra, se ne portavano appresso quantità ragguardevoli. Se
la mangiavano sul mare, e col mare: spugnandola cioè in un po’
d’acqua salata. In modo da ammorbidirla e salarla al punto giusto.
Non
che abbiano smesso di farlo: le classiche “gallette”, ultima risorsa
alimentare in condizioni di emergenza, sono strette parenti della fresella.
Forse per via della storia di esploratrice e di giramondo che ha, la
fresella sta bene con tutto. E con tutti. La morte sua? Amica dei marinai
com’è, il suo elemento è l’acqua. Da quella di mare, già citata,
all’acqua dei fagioli. E per restare nel liquido, il brodo di polipo, e
il sugo della trippa.
La
fresella è l’ingrediente-base della caponata. Una caponata senza la
fresella è come Roma senza il Colosseo: un’assurdità. Per fare la vera
caponata, insieme alla fresella devono esserci l’olio, il pomodoro e il
sale (un pizzico). Almeno in origine: poi vi si aggiungeranno l’ acciuga
(per l’apporto proteico) e, talvolta, le olive verdi.
Caponata
è nome antico, ma così antico che non si sa più da dove sia arrivato.
Certo è che gli antichi osti latini si chiamavano “cauponares”; e
molto più avanti, alla fine del 700, si legge del “cappone di galera
alla siciliana”, o “cappone di magro”. Tornando
alla fresella, della sua presenza nel sud d’Italia ci sono testimonianze
già a partire dal 1300. Di lei rimane l’eco nelle voci dei venditori
ambulanti. A Napoli le freselle le vendeva il “tarallaro”, che batteva
incessantemente le strade della città coi suoi mitici taralli “nzogna e
pepe” contenuti entro una grande sporta, e tenuti in caldo da una
coperta. Spesso si portava appresso anche un po’ di freselle (come
si vede, ancora una volta in posizione subalterna, mai protagoniste).
Intorno
al 1870 questo era il grido del tarallaro: “pe ve scarfà lo stomaco in
chesta piattella, cotiche cu freselle ognuno sta a magnà!”
Cibo
per lo stomaco del popolo, la fresella è perciò presente nella
lingua del popolo; il dialetto. E proprio in dialetto la citano due grandi
della poesia napoletana, Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo.
A
segnalare la familiarità dei napoletani con la fresella, a Napoli questo
termine passò, nei secoli scorsi, ad indicare le percosse (‘e
mazzate”), e l’organo sessuale femminile (“Chella guagliona teneva
sotto na fresella….”) .
Nel
passaggio dal vernacolo alla lingua; dal popolino alla cultura, la
fresella sparisce. Nei dizionari italiani non compare affatto, se
non in quelli gastronomici. Uno per tutti, il Piccinardi, che alla voce
“frisella o frisedda” recita: “Pane biscottato a forma di ciambella
tipico della Puglia e della Campania. Viene fatto con farina bianca o
integrale, acqua e lievito di birra. E dopo una prima cottura viene
tagliato a metà e rimesso in forno a biscottare. Prima di essere
consumato va ammorbidito in acqua fredda….”
Come
per la caponata, sull’origine del termine “fresella” non vi sono
certezze. Sgomberiamo per prima cosa il campo dalle false etimologie, che
chissà perché sono di solito le più accreditate: fresella non
deriva da “fresa”. Le due cose non hanno visibilmente niente in
comune, senza contare che la fresa è nata molto dopo.
E
nemmeno proviene da “fresillo”: in napoletano, nastrino. Anche se la
forma oblunga della fresella potrebbe richiamare, alla lontana, un nastro.
Certe
etimologie verrebbe voglia di accreditarle solo per rendere omaggio
alla fantasia degli studiosi che le hanno partorite. E’ il caso di
questa: “frisoles”, che in spagnolo vuol dire fagioli. Ed è appunto
nella già ricordata acqua di fagioli che un tempo veniva spugnata la
fresella. Peccato che, questa pratica fosse solo una delle tante, e
certamente non la più diffusa.
Fresella
deriva invece, con buona probabilità, dal latino “frendere”, che vuol
dire macinare, pestare, stritolare. Plinio usava questo verbo
nell’accezione di “ridurre in piccoli pezzi”, e da questa radice
proviene l’aggettivo “friabile”. Ed è esattamente questo il destino
della croccante e ruvida fresella: più o meno ammorbidita nell’acqua o
negli altri liquidi, viene sminuzzata senza alcun riguardo. Lei però, in
linea col suo “understatement” e col suo spirito di servizio, non ne
soffre; anzi, ne è fiera.
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